giovedì, 21 Novembre 2013

Campus “Le forme del giardino naturale”: resoconto

[di Simona]

Quando all’inizio di un convegno o di una lezione ti dicono che uscirai con poche certezze o forse con più confusione in testa di quando sei entrato di solito si prospetta qualcosa di interessante, non una cattedratica lezione su incrollabili ed indiscutibili certezze ma un aperto confronto su temi attuali, multiformi, in evoluzione… come la natura e ciò che a essa si riconduce.

In effetti le promesse sono state tutte mantenute a cominciare dalle inusuali presentazioni dei maestri che si sono raccontatiattraverso tre oggetti per loro particolarmente significativi: sentire un vivaista che si presenta tramite un palloncino rosso, uno strano sasso lucido bianco e nero che assomiglia ad un uovo od un paio di occhiali invece del solito mi chiamo…, ho un vivaio a…, produco queste piante… lascia presagire che ci troviamo di fronte a personaggi non del tutto comuni. I relatori sono perloppiù vivaisti sperimentatori ed anticonvenzionali, persone che coltivano una pianta perchè la ritengono valida e non perchè è di moda, anche a rischio di tenerla anni in vivaio finchè non trovano l’appassionato, la persona giusta cui affidare la loro creatura, più d’uno di loro ha dichiarato che preferisce non vendere una pianta quando capisce che finirebbe nelle mani sbagliate.

Ecco poi l’action conference di Filippo Alossa con i suoi cartelli agli estremi della sala per chiederci se parlare di giardino naturale vuol dire parlare di progettazione del paesaggio o di tecniche di gestione. Siamo stati invitati ad esprimere il nostro punto di vista rispetto a queste due posizioni disponendoci fisicamente alla distanza da ciascun cartello che ci sembrava adeguata a rappresentare la nostra opinione, parecchi di noi si sono posizionati verso il centro della stanza mentre i maestri erano equamente divisi fra i due estremi…la prima serata si è conclusa all’insegna della curiosità: come mai tanta differenza d’opinioni fra loro?

Il sabato è stato il giorno della “filosofia” del giardino naturale.

Francesco Borgese è stato il primo a parlare ha dato degli spunti assai interessanti sulla sostenibilità dei giardini storici: il concetto da lui introdotto che il mantenimento di un giardino passi attraverso la sostituzione di alcune specie in modo da permetterne una manutenzione sostenibile in tempi di scarsità di risorse, economiche e di manodopera ed in particolare che un giardino storico non può essere considerato alla stregua di un museo dove tutto resta sempre uguale, pena la sua rovina è risultato evidente ai nostri occhi durante la visita al giardino di Palazzo Coronini Cromberg a Gorizia, un esempio eclatante di come cercare di lasciare tutto come era senza però aver la possibilità di fare tutta la manutenzione prevista all’epoca dell’impianto porti al deterioramento totale del giardino stesso.

Il concetto della quantità di energia (intesa come forza lavoro, acqua, concimi, fitofarmaci…) necessaria ad un giardino ha cominciato a farsi strada già in questo intervento. Senza scomodare teorie più o meno estremiste sul biologico, biodinamico o quant’altro si è cominciato a riflettere sulla ricerca di quello che può essere uno stato di equilibrio fra gli elementi in gioco nel giardino.

Questo concetto è stato ribadito anche dal successivo relatore, Filippo Alossa che, concedetemi la divagazione, mi ha fatto venir in mente quelle creature un po’ misteriose delle leggende dei boschi, all’apparenze furtive e beffarde ma in grado di regalare doni preziosi una volta che si è superata la loro iniziale apparente scontrosità e ritrosia.

Una sua frase “il giardino come ecosistema in equilibrio con l’introduzione della minor quantità possibile di energia dall’esterno” rappresenta una sintesi efficace del discorso che si stava sviluppando. Ovviamente gli spunti erano anche molti altri tra cui le considerazioni sull’antropocentricità del giardino e sul ruolo di quelli che dovrebbero essere gli altri attori in scena cioè piante, animali, insetti, microrganismi su cui Filippo ci aveva già fatto riflettere anche la sera prima quando ci ha chiamato ad indicare i protagonisti necessari alla realizzazione di un giardino. Benchè i maestri non abbiano voluto fornire delle risposte definitive, l’idea proposta da Filippo (mutuata dalla permacultura – scritto proprio con la U, il che la dice lunga ma ci farebbe perdere in discorsi troppo ampi) di scegliere le piante in base alle funzioni che esse possono svolgere rispetto a macrofauna, microfauna, effetto coprisuolo ed effetto fertilizzante rappresenta secondo me un’ottima chiave progettuale da applicare nei nostri giardini qualora volessimo orientarci al giardino naturale.

Fin ora dunque si era parlato, benché in termini astratti e concettuali piuttosto che pratici, di tecniche di gestione ma a questo punto è arrivata Clémence Chupin che ha spostato la nostra attenzione sul paesaggio. Le sue fotografie che dalle piccole chiazze dei licheni si sono allargate attraverso il bosco fino alle colline ed al mare della Liguria ci hanno condotto alle considerazioni sull’inserimento del giardino naturale nel paesaggio come trait d’union fra il paesaggio stesso ed il giardino comunemente inteso.

Clémence ci ha mostrato i suoi prati naturali in cui gli sfalci avvengono in maniera scalare, dopo che sono stati raccolti i semi delle specie spontanee che vi fioriscono: il prato non è più un’uniforme distesa d’erba tutta della stessa altezza ma assume nelle stagioni forme e volumi differenti che danno al paesaggio un aspetto mutevole. Mentre raccontava la sentivo emanare quell’energia che solo chi fa il proprio lavoro con grande entusiasmo e amore riesce a trasmettere.

Didier Berruyer ha spostato l’accento sulla sensazione del naturale e qui ho visto più d’uno sguardo smarrirsi, incluso il mio, poichè nulla è più soggettivo delle sensazioni e pensare di usarle come criterio per impostare un giardino non è certo semplice. L’esercizio che è stato fatto da alcuni volontari di creare una composizione che esprimesse la propria sensazione di naturale ha dato risultati assai differenti in cui il vissuto di ciascuno si intrecciava con le forme ed i colori delle piante e ciò si leggeva ugualmente nelle composizioni presentate poi dai maestri. Quello che personalmente ho colto è che la sensazione di naturale è legata all’armonia delle forme che banalmente si origina da adeguati accostamenti delle piante ma in pratica si traduce in una scelta delle essenze studiata non solo in base alle loro esigenze agronomiche ma soprattutto grazie alla capacità di vedere il loro effetto nel paesaggio quando, ormai cresciute, giocheranno con il vento e le luci mutevoli nell’arco delle stagioni. Non facilissimo a dirsi, ancor più difficile all’atto pratico come abbiamo visto la mattina successiva quando si è trattato di intervenire su una vera aiuola.

La domenica, dopo alcune attività pratiche, ci sono stati ancora due interessantissimi interventi che ci hanno trasmesso altri modi d’intendere giardino naturale.

Ester Cappadonna ha fatto rilevare come le piante sopravvissute in vecchi giardini abbandonati rappresentino un’insostituibile risorsa per giardinieri pigri e per giardini a bassa manutenzione e siano inoltre una garanzia di resistenza a intemperie e avversità. Mi è sembrato un punto di vista ancora diverso rispetto alla profusione di graminacee ed erbacee perenni che spesso si associano al concetto di giardino naturale: alcune piante che magari non sono neppure autoctone ma sono sopravvissute senza cure da decenni nei giardini di una certa zona, possono entrare a buon diritto nei giardini naturali di quell’area.

Il criterio di Ester riconduce, a mio avviso, di nuovo alla sostenibilità, al fatto che un giardino naturale dovrebbe richiedere un minor apporto di energia dall’esterno. Le piante di cui parla Ester sono tenaci e affidabili, in questo assomigliano molto a lei, eppure sono piante che spesso non prendiamo neppure in considerazione (illuminante a questo proposito il capitolo del suo libro dedicato alle Tradescantie). Mi vien da pensare che parlare di giardino naturale voglia dire fra l’altro riconsiderare molti dei nostri stereotipi e questo implica sicuramente un grande sforzo concettuale ma è estremamente salutare per non fossilizzarsi sulle proprie idee.

Infine due concetti espressi da Mario Mariani – last but not least, ci tengo a sottolinearlo – secondo cui il tempo è un fattore determinante nel giardino naturale, qualsiasi giardino ha bisogno di tanto tempo per tornare a essere naturale (attenzione non si intende con ciò abbandonato) e l’interessante spunto sul “mimetismo” delle piante inteso come la possibilità di sfruttare piante che per la loro forma fanno credere di essere qualcun altro permettendoci però di sfruttare le caratteristiche proprie della loro specie. Il suo avvincente discorso, che neppure provo a sintetizzare vista la vastità e la profondità, richiederebbe ulteriori approfondimenti e lascia molti interrogativi aperti, tanto per non smentire le premesse.

Scopo del campus non era dare una visione univoca, una definizione accademica del giardino naturale, una soluzione chiavi in mano su come fare un giardino naturale. Gli spunti che ci sono stati forniti concorrono a formare in noi una sensibilità, una sensasione, per dirla con Didier, che potremo cercare di tradurre praticamente nel nostro giardino. Ma se qualcuno mi chiedesse alla fine cosa ho imparato, a cosa è servito il campus direi che la possibilità che ci è stata data di riflettere profondamente, oserei dire filosoficamente, intorno al giardino mi farà guardare con occhi diversi ogni giardino e spazio verde esistente o da creare, obbligandomi a valutare anche punti di vista che sicuramente prima del campus non avrei preso in considerazione.

Simona




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